Negli ultimi decenni l’attenzione da parte dell’Infant Research è cresciuta intorno alla tematica sulle origini e primi sviluppi dell’intersoggettività, rivoluzionando ancor di più la visione passiva e privo di capacità del bambino nella prima infanzia e in particolare ponendo in luce le complesse competenze sociali emergenti nelle prime fasi del suo sviluppo. 

La grande rilevanza in questo ambito sta nella stretta connessione tra lo studio sull’intersoggettività e lo studio sull’evoluzione delle competenze comunicative e di regolazione emotiva del bambino e, in senso più ampio, nello studio sul primo sviluppo del Sé, come risultato delle progressive esperienze intersoggettive tra il bambino e i suoi caregiver. 

Esiste una tendenza innata a ricercare e mantenere relazioni 

Partendo dall’assunto circa la teoria dell’attaccamento, per la quale esiste una tendenza innata a ricercare e mantenere relazioni intorno cui si organizza l’esperienza del bambino piccolo e grazie alla quale si costituisce una forza motivazionale al pari della ricerca del cibo, le ricerche dell’Infant Research hanno esplorato i primi sviluppi dell’intersoggettività, intesa come vissuto di esperienza condivisa con un altro essere umano, o esperienza di “contatto mentale” con l’altro, che ha luogo durante la comunicazione interpersonale nel corso del primo anno di vita.

Il neonato e l’intelligenza sociale: l’intersoggettività primaria

Colwyn Trevarthen (1979), biologo e psicologo neozelandese, ha avanzato l’ipotesi di poter rintracciare nel bambino, fin dalle prime settimane di vita, un’intelligenza di tipo sociale di matrice innata che lo rende “pronto” ad interagire con i suoi partner (innate proto conversational readiness). 

Questa intersoggettività primaria comprende tutte quelle forme di interazione che emergono nei primi mesi di vita e che sono delineabili come “dialoghi sociali”, caratterizzati da scambi di sguardi, sorrisi e vocalizzazioni e precocemente conformi alle regole dell’alternanza dei turni (turn taking), come rispettare i momenti di attività e di pausa riconoscendo il turno del bambino nella fase iniziale e attivare il proprio quando cambia il ritmo o si stacca, che influenzeranno successivamente i ritmi del dialogo verbale e dell’interazione sociale. 

La mente del neonato sarebbe dunque organizzata in forma dialogica fin dalla nascita: la percezione del sé corporeo sarebbe operativamente accoppiata a quella di un “altro virtuale”; questa costante complementarietà, nei momenti di interazione con una persona reale, renderebbe capace il bambino di una percezione partecipante dei movimenti motori, mimici ed espressivi dell’altro . 

I neuroni visuo-motori, più comunemente conosciuti come “neuroni specchio”, forniscono un meccanismo di “riconoscimento dell’azione” e le azioni dell’agente sono riprodotte nella corteccia premotoria dell’osservatore. Questo meccanismo, coinvolto anche nei processi di imitazione, permetterebbe di “sentire” di essere come l’altro, o che l’altro è “come me”. 

La scoperta dei “neuroni specchio” viene recentemente portata a sostegno della teoria del “rispecchiamento empatico”, ipotizzando meccanismi di rispecchiamento sensibili agli intenti del movimento o dell’azione espressiva umana e della coordinazione intersoggettiva. 

Nei primi mesi di vita del bambino, la comparsa di un primo senso di Sé come sé relazionale è sostenuta essenzialmente dal rispecchiamento delle emozioni dell’infante da parte della madre che contribuisce a creare un senso di connessione affettiva tra i partner. 

Il ruolo fondamentale del caregiver nel contatto mentale

Il caregiver ha quindi un ruolo fondamentale nel “contatto mentale” e nel favorire il coinvolgimento del neonato nello scambio comunicativo, identificandosi empaticamente con i suoi stati d’animo e le sue motivazioni, e offrendogli modalità comunicative adattate con variazioni ritmiche e prosodiche (ritmo fondamentale del movimento che si ripete, brevi esplosioni espressive, ripetizioni di gruppi di movimenti ritmici, modulazione dell’intensità dell’espressione), che hanno anche il ruolo di “amplificazione” delle emozioni e dell’esperienza vissuta dal lattante.
Le variazioni ritmiche e prosodiche costituiscono canali privilegiati di trasmissione delle emozioni, ed è proprio il passaggio di espressioni emotive dalla madre al neonato e dal neonato alla madre che definisce uno “stretto contatto mentale” tra i partner (Trevarthen, 1993). 

Perciò, soprattutto nel corso del primo anno di vita, si sviluppa fra madre e bambino un sistema di comunicazione affettiva, in cui si intrecciano segnali posturali, gestuali, tattili, mimici e vocali.
Il modo in cui il neonato è tenuto in braccio (holding) e manipolato (handling), lo sguardo reciproco tra i due partner, l’intensità e la durata del pianto del bambino, i suoi segnali vocali e mimici, la struttura temporale e ritmica degli scambi comunicativi, consentono al caregiver sensibile di creare modelli interattivi reciproci e contingenti con il proprio figlio.

di Francesca Lopez

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